Stupore delle forme
PAOLA BALLESI 1999

La pittura e la scultura di Gino Maretta si inscrivono dentro il segno di una ricerca sull'immagine che da più di un trentennio declina la vasta problematica dell'oggetto.
Agli esordi il giovane artista si propone come una delle interpretazioni più estreme ed eterodosse della poetica informale, sia quando si mette sulle tracce di elementari motivi di cultura spontanea e recupera materie povere dalle quali traspare «l'orma dell'intervento fabrile dell'uomo», che quando richiama, con le colate magmatiche dei Piombi, ad «un'antica operosità umana, al primo dominio della materia».
Anche nelle sue opere più dichiaratamente informali, non intende alludere alle cieche energie dell'essere, osserva acutamente Francesco Russali, bensì evocare «cose tornate, dopo l'esaurimento della loro funzione, a frammenti di materia. Non simboli dell'istinto, ma della memoria storica». È dunque all'aprirsi della stagione post-informale che egli libera la mania prassistica precedentemente mortificata mettendo a frutto la sua grande abilità di artìfex, con la quale connota inequivocabilmente la propria ricerca, allorché le urgenze intrinseche della materia vengono piegate al rigore del metodo, ammansile e controllate da istanze tecniche e progettuali avanzate dalla concrezione della stessa nell'oggetto.
Il fare artistico di Marotta matura proprio nel momento di scadenza della cultura informale che nei confronti della nuova generazione agisce comunque come dato storico di riferimento, ovvero come proposta esaurita da superare programmaticamente.
Acquisito definitivamente il postulato avanguardista di esclusione di ogni imitazione della natura, superato il concreto coinvolgimento esistenziale, l'arte degli anni '60 registra le esigenze di concretezza avanzate dalla materia e la sua volontà di reificazione del segno e del gesto nell'oggetto, presente in tutta la sua solidità.
Il giovane Marotta si segnala tra gli artisti romani come una delle varianti più acute di questa nuova temperie culturale, proprio quando la Scuola di Piazza del Popolo si attesta quale polo europeo della grande arte americana, ma per collocarsi ben presto al di là di una pedissequa riproposizione di stilemi pop. Roma, infatti, non è lo spazio metropolitano newyorkese, ma il luogo dove convivono, sedimentate nel tessuto urbano, storie di civiltà e di culture avvicendatesi nei secoli e che negli anni Sessanta ha interpretato anche il mito americano, ma per riaffermare la cifra tutta europea e in particolare romana di continuità della storia e della tradizione.
In questo clima Marotta, proprio attraverso l'uso di colori urlati, di stridenti vernici da automobile, da cartellone o da segnaletica stradale, tenta di riannodare le fila della storia attraverso la rivisitazione dell'impianto iconico, che nonostante tutto aveva retto l'urto della dirompente esperienza informale. Rispetto ad operazioni artistiche dello stesso segno che sollecitavano o a una presa di possesso materiale del mondo, col Nouveau realismo, o al prelievo dell'oggetto dal suo contesto per inserirlo in altro contesto, col New-dada, oppure alla ricostruzione di oggetti in tutto il loro peso fisico, con la Pop-art, Marotta sceglie quest'ultima via, ma, contravvenendo alle sue indicazioni, predilige tra gli oggetti non quelli da sempre fuori dal sacro recinto dell'arte, sottoposti al ciclo di consumo usa-e-getta, bensì quelli che invece hanno avuto una consacrazione ufficiale nel repertorio codificato della storia dell'arte. Così affronta soggetti un tempo ritenuti privilegiati, al centro di una solida ed estesa tradizione, che tuttavia, imbolsiti dalla consuetudine e sterilizzati dall'uso, sono diventati logori al punto da presentarsi impraticabili e impotenti per la loro sopraggiunta banalità. Gli alberi, le nuvole, il mare, la pioggia, gli animali etc., sono le immagini che egli riscatta alla consunzione confezionandole in monemi secondo nozioni convenute, ma nei significanti materiali più disparati: dal metacrilato al travertino, dal ferro alla ghisa, al piombo.
La sua non è nostalgia per la rappresentazione, ma naturale prosieguo della poetica del segno e del gesto all'interno di una téchnè responsabile e nel contempo graffiante che, per certificare ancora più incisivamente l'artificio dell'arte, si avvale anche del saper fare applicato alle nuove tecnologie, in gara costante e senza esclusione di colpi con la natura (...)
Nascono così, ibernate ed espunte dal flusso del reale, le sculture che collezionano un repertorio di elementi naturalistici artificiali atti ad imbastire nuovi paesaggi ed inedite dimensioni urbane, quasi una seconda natura, a metà strada tra la civiltà dell'immagine e la civiltà tecnologica.