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Stupore delle forme
La pittura e la scultura di Gino Maretta si inscrivono dentro
il segno di una ricerca sull'immagine che da più di un trentennio
declina la vasta problematica dell'oggetto.
Agli esordi il giovane artista si propone come una delle interpretazioni
più estreme ed eterodosse della poetica informale, sia quando
si mette sulle tracce di elementari motivi di cultura spontanea
e recupera materie povere dalle quali traspare «l'orma dell'intervento
fabrile dell'uomo», che quando richiama, con le colate magmatiche
dei Piombi, ad «un'antica operosità umana, al primo dominio
della materia».
Anche nelle sue opere più dichiaratamente informali, non intende
alludere alle cieche energie dell'essere, osserva acutamente
Francesco Russali, bensì evocare «cose tornate, dopo l'esaurimento
della loro funzione, a frammenti di materia. Non simboli dell'istinto,
ma della memoria storica». È dunque all'aprirsi della stagione
post-informale che egli libera la mania prassistica precedentemente
mortificata mettendo a frutto la sua grande abilità di artìfex,
con la quale connota inequivocabilmente la propria ricerca,
allorché le urgenze intrinseche della materia vengono piegate
al rigore del metodo, ammansile e controllate da istanze tecniche
e progettuali avanzate dalla concrezione della stessa nell'oggetto.
Il fare artistico di Marotta matura proprio nel momento di
scadenza della cultura informale che nei confronti della nuova
generazione agisce comunque come dato storico di riferimento,
ovvero come proposta esaurita da superare programmaticamente.
Acquisito definitivamente il postulato avanguardista di esclusione
di ogni imitazione della natura, superato il concreto coinvolgimento
esistenziale, l'arte degli anni '60 registra le esigenze di
concretezza avanzate dalla materia e la sua volontà di reificazione
del segno e del gesto nell'oggetto, presente in tutta la sua
solidità.
Il giovane Marotta si segnala tra gli artisti romani come
una delle varianti più acute di questa nuova temperie culturale,
proprio quando la Scuola di Piazza del Popolo si attesta quale
polo europeo della grande arte americana, ma per collocarsi
ben presto al di là di una pedissequa riproposizione di stilemi
pop. Roma, infatti, non è lo spazio metropolitano newyorkese,
ma il luogo dove convivono, sedimentate nel tessuto urbano,
storie di civiltà e di culture avvicendatesi nei secoli e
che negli anni Sessanta ha interpretato anche il mito americano,
ma per riaffermare la cifra tutta europea e in particolare
romana di continuità della storia e della tradizione.
In questo clima Marotta, proprio attraverso l'uso di colori
urlati, di stridenti vernici da automobile, da cartellone
o da segnaletica stradale, tenta di riannodare le fila della
storia attraverso la rivisitazione dell'impianto iconico,
che nonostante tutto aveva retto l'urto della dirompente esperienza
informale. Rispetto ad operazioni artistiche dello stesso
segno che sollecitavano o a una presa di possesso materiale
del mondo, col Nouveau realismo, o al prelievo dell'oggetto
dal suo contesto per inserirlo in altro contesto, col New-dada,
oppure alla ricostruzione di oggetti in tutto il loro peso
fisico, con la Pop-art, Marotta sceglie quest'ultima via,
ma, contravvenendo alle sue indicazioni, predilige tra gli
oggetti non quelli da sempre fuori dal sacro recinto dell'arte,
sottoposti al ciclo di consumo usa-e-getta, bensì quelli che
invece hanno avuto una consacrazione ufficiale nel repertorio
codificato della storia dell'arte. Così affronta soggetti
un tempo ritenuti privilegiati, al centro di una solida ed
estesa tradizione, che tuttavia, imbolsiti dalla consuetudine
e sterilizzati dall'uso, sono diventati logori al punto da
presentarsi impraticabili e impotenti per la loro sopraggiunta
banalità. Gli alberi, le nuvole, il mare, la pioggia, gli
animali etc., sono le immagini che egli riscatta alla consunzione
confezionandole in monemi secondo nozioni convenute, ma nei
significanti materiali più disparati: dal metacrilato al travertino,
dal ferro alla ghisa, al piombo.
La sua non è nostalgia per la rappresentazione, ma naturale
prosieguo della poetica del segno e del gesto all'interno
di una téchnè responsabile e nel contempo graffiante che,
per certificare ancora più incisivamente l'artificio dell'arte,
si avvale anche del saper fare applicato alle nuove tecnologie,
in gara costante e senza esclusione di colpi con la natura
(...)
Nascono così, ibernate ed espunte dal flusso del reale, le
sculture che collezionano un repertorio di elementi naturalistici
artificiali atti ad imbastire nuovi paesaggi ed inedite dimensioni
urbane, quasi una seconda natura, a metà strada tra la civiltà
dell'immagine e la civiltà tecnologica.
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